Pani cà meusa (pane con la milza)
In età giovanile, per lavoro, ho
vissuto a Palermo tredici mesi: esattamente dall’agosto 1983 a tutto settembre
1984.
Ero già stato via dalle carezze
natie della Campania, ma non potevo mai pensare che bastasse uno stretto d’acqua
di un paio di chilometri per farmi sentire un isolano. E invece, bastano pochi
giorni per diventare un isolano e succede quando consideri il tuo viaggio di
ritorno come un’imbarcata verso il Continente.
Il continente che sta lontano
uno sputo, ma non ti viene proprio voglia di andarci e, questo sentirmi isolano
mi ha fatto godere della Sicilia e di Palermo in particolare. Una città dove
bastava svoltare l’angolo per passare dalle urla e strilla del mercato di Corso
Scinà con gli odori culinari, al silenzio alto borghese (fintamente nobile) di Piazza Politeama.
Ho vissuto e mi sono trascinato in
entrambi le umanità di Palermo, sia di giorno che di notte.
E in quelle giornate mai fredde anche in pieno inverno che ho assaporato il nettare culinario di
Palermo: dai ristoranti al cibo di strada, si quel cibo di strada che ti faceva
compagnia soprattutto la notte.
E tra le bancarelle di cibarie ho apprezzato e amato, come un
ingordo, il pane con la milza (in lingua sicula: pani cà meusa).
La nobiltà del 5/4: scarto
dei borghesi e sostanza del proletariato.
E come figlio del proletariato sono
cresciuto con i 5/4 alimentari e non dovevo arrivare a Palermo per conoscere e
mangiare la milza. E nell’agro nocerino sarnese non poteva mancare tra le
prelibatezze la “milza alla salernitana” e alla mia epoca non c’era ragazzino campano che a
quei tempi non sia cresciuto mangiando la milza alla salernitana, esclusivamente
fredda e preferibilmente consumata il giorno successivo a quello della preparazione
e cottura.
Ma era un piatto esclusivamente
estivo. Era estivo perché negli anni 60 e 70 del secolo scorso, uno degli ingredienti
principi di questo piatto lo si poteva trovare solo d’estate: la menta. …. Altri
tempi rispetto ad oggi dove la menta la trovi ogni giorno dell’anno e anche in
Lapponia presso gli Innuit.
Ma la milza a Palermo, la potevi
mangiare tutto l’anno e qualsiasi ora del giorno e della notte, perché gli
ingredienti erano presenti sul territorio 365 giorni all’anno. E per uno come
me come fai a non innamorarti di questo pasto. Questo è stato uno dei sapori
che ancora oggi mi porto dentro.
Con l’impegno che non mancherà
occasione di parlarvi della Milza alla Salernitana che per mia mamma era un
must estivo, ecco a voi il pani cà meusa.
Ricetta
Innanzitutto, parliamo di carni
di vitello. Lessate della milza e, se volete, anche del polmone, fateli
raffreddare e tagliateli a fettine.
Con della pasta da pane preparate
delle focaccie, altrimenti compratele, poggiatele su una piastra sino a quando
saranno dorate.
In una casseruola con due
cucchiaiate di strutto scaldate le fettine di milza e polmone. Imbottite le
focacce con la carne e servitele caldissime spruzzate d’alcune gocce di limone
e sale.
C’è una variante, utilizzata
soprattutto per quelli che non riescono a ingurgitare con gusto la milza: è “maritare” (sposare) le pagnotte
aggiungendo alla farcitura scaglie di caciocavallo o ricotta, per poi
soffriggerle qualche minuto nello strutto sfrigolante.
Leggenda o storia
Alcuni componenti di questa
comunità, fra le varie attività svolte nei mattatoi cittadini, eccellevano
nell’arte di squartare e sezionare i bovini. La fede religiosa obbligava gli
ebrei a non percepire denaro per il lavoro di macellazione, così a titolo di
ricompensa trattenevano le interiora, che fatte bollire rivendevano ai
"gentili" (cristiani) come farcitura di pane e formaggio.
Nel 1492, con l’allontanamento
della comunità ebraica dai territori sottoposti al dominio spagnolo di Re
Ferdinando II d'Aragona “il cattolico”, quest'attività passò presumibilmente ai
“caciuttari”, che nel loro chiosco ambulante, oltre a servire il pane inzuppato
nello strutto e riempito di formaggio, aggiunsero le interiora bollite e
fritte.
Nell’ottocento nacquero poi le
famose "focaccerie" dove, seduti al tavolo e serviti da eleganti
camerieri, si poteva gustare la "vastedda” dopo aver risposto alla
semplice domanda: “a vuoli schietta o maritata?”
La prima prevedeva la pagnotta
ripiena di milza e altri grassetti appetitosi fatti sfrigolare nello strutto
caldissimo, con soltanto un po' di limone; la seconda aggiungeva della ricotta
o caciocavallo a scaglie, attribuendo al formaggio “maritato” l'allegoria del
velo da sposa.
Ancora oggi il “pani ca’ meusa”
si prepara secondo tradizione: forchetta senza i denti centrali per non
sbriciolare le fettine di milza; padella inclinata, nella quale in basso frigge
lo strutto e in alto stanno le interiora.
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